Copyright

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17 Gen 2012
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Il copyright (termine di lingua inglese che letteralmente significa diritto di copia) è l'equivalente del diritto d'autore nei paesi di common law, come gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, dal quale però differisce sotto vari aspetti.

È solitamente abbreviato con il simbolo ©. Quando tale simbolo non è utilizzabile si riproduce con la lettera "c" posta tra parentesi: (c) o (C).

Storia

Le prime norme sul diritto di copia (copyright) furono emanate dalla monarchia inglese nel XVI secolo con la volontà di operare un controllo sulle opere pubblicate nel territorio. Col diffondersi delle prime macchine automatiche per la stampa, infatti, iniziò ad affermarsi una libera circolazione fra la popolazione di scritti e volumi di ogni argomento e genere. Il governo, poiché la censura era all'epoca una funzione amministrativa legittima come la gestione della sicurezza pubblica, avvertì il bisogno di controllare ed autorizzare la libera circolazione delle opinioni. Ragion per cui fondò una corporazione privata di censori – la London Company of Stationers (Corporazione dei Librai di Londra) - i cui profitti sarebbero dipesi da quanto fosse stato efficace il loro lavoro di censura filo-governativa.

Agli Stationers (ovvero gli editori) furono concessi i diritti di copia (copyright, appunto) su ogni stampa, con valenza retroattiva anche per le opere pubblicate precedentemente. La concessione prevedeva il diritto esclusivo di stampa, e quello di poter ricercare e confiscare le stampe ed i libri non autorizzati, finanche di bruciare quelli stampati illegalmente. Ogni opera, per essere stampata, doveva essere registrata nel Registro della corporazione, registrazione che era effettuabile solamente dopo un attento vaglio ad opera del Censore della corona o dopo la censura degli stessi editori. La corporazione degli editori esercitava perciò a tutti gli effetti funzioni di polizia privata, dedita al profitto e controllata da parte del governo.

Ogni nuova opera veniva annotata nel registro della corporazione sotto il nome di uno dei membri della corporazione il quale ne acquisiva il “copyright”, ovvero il diritto esclusivo sugli altri editori di pubblicarla; una corte risolveva le eventuali dispute fra membri. Il diritto sulle copie (copyright), perciò, nasce come diritto specifico dell'editore, diritto sul quale il reale autore non può quindi recriminare alcunché né guadagnare di conseguenza.

Nel successivo secolo e mezzo la corporazione dei censori inglesi generò benefici per il governo e per gli editori: per il governo, esercitando un potere di controllo sulla libera diffusione delle opinioni e delle informazioni; per gli editori, traendo profitto dal proprio monopolio di vendita. Sul finire del XVII secolo, però, l'imporsi di idee liberali nella società frenò le tradizionali politiche censorie e causò una graduale fine del monopolio delle caste editrici.

Temendo una liberalizzazione della stampa e la concorrenza da parte di stampatori indipendenti ed autori, gli editori fecero valere la propria moral suasion sul Parlamento. Basandosi sull'assunto che gli autori non disponessero dei mezzi per distribuire e stampare le proprie opere (attività all'epoca assai costosa e quindi riservata a pochi), mantennero tutti i privilegi acquisiti in passato con un'astuzia: attribuire ai veri autori diritti di proprietà sulle opere prodotte, ma con la clausola che questa proprietà potesse essere trasferita ad altri tramite contratto. Di lì in poi gli editori non avrebbero più generato profitto dalla censura sulle opere, ma semplicemente dal trasferimento dei diritti firmato (più o meno volontariamente) dagli autori, trasferimento in ogni caso necessario per la altrimenti troppo costosa pubblicazione delle opere.

Su queste basi, nel 1710 venne perciò emanata la prima norma moderna sul copyright: lo Statuto di Anna (Statute of Anna).

A partire dalla Statuto di Anna, gli autori, che fino ad allora non avevano detenuto alcun diritto di proprietà, ottennero in sostanza il (tutto sommato vacuo) potere di bloccare la diffusione delle proprie opere, mentre la corporazione degli editori incrementò i profitti grazie alla cessione – sostanzialmente obbligatoria per ottenere stampa e distribuzione – da parte degli autori dei vari diritti sulle opere.[4]

Il rafforzamento successivo dei diritti d'autore su pressione delle corporazioni, generò gradualmente il declino di altre forme di sostentamento per gli autori (come il patronato, la sovvenzione, ecc.), legando e sottoponendo indissolubilmente il sostentamento dell'autore al profitto dell'editore.[5]

Nel corso dei successivi due secoli anche la Francia, la Repubblica Cisalpina, il Regno d'Italia, il Regno delle Due Sicilie e il resto d'Europa emanarono legislazioni per l'istituzione del copyright (o del diritto d'autore).

- nel 1836, il codice civile albertino per la Sardegna.
- nel 1840, il 22 dicembre, il decreto di Maria Luigia, per il Ducato di Parma, Piacenza e Guastalla.
- nel 1865, il 25 giugno, nel Regno d'Italia, con legge 2337.

Talune con ispirazioni maggiormente illuministe e democratiche rispetto a quella anglosassone, pur tuttavia con la medesima radice.

Nel 1886, il 9 settembre, fu costituita l'Unione internazionale di Berna, per coordinare i rapporti in questo campo, di tutti i paesi iscritti, ancora oggi operante.
Lo sviluppo tecnologico e l'avvento di Internet

Nel XX secolo, l'avvento dei riproduttori ed in particolare del computer e delle Rete internet, ha sottratto uno dei cardini alla base del copyright in senso classico: ovvero il costo e la difficoltà di riprodurre e diffondere sul territorio le opere, aspetti fino ad allora gestiti dalla corporazione degli editori dietro congruo compenso o cessione dei diritti da parte degli autori. Ciò ha reso assai difficile la tutela del copyright come tradizionalmente inteso, e creato nuovi spazi per gli autori.

Il primo episodio con eco internazionale, si è avuto a cavallo fra il XX e il XXI secolo con il cosiddetto caso Napster, uno dei primi sistemi di condivisione gratuita di file musicali, oggetto di enorme successo a cavallo del millennio. La chiusura di Napster, avvenuta nel 2002 e generata dalle denunce dagli editori che vedevano nel sistema un concorrente ai propri profitti, non ha risolto se non per breve tempo gli attriti. Nuovi programmi di file sharing gratuito sono sorti rimpiazzando l'originale Napster e vanificando gli scopi della chiusura. Secondo gli operatori del mercato dell'intrattenimento, una costante diminuzione delle vendite di cd musicali è scaturita dalla diffusione di questi sistemi e della progressiva obsolescenza della precedente tecnologia, obsolescenza dovuta principalmente all'eccessivo costo d'acquisto di materiale originale. Ciò ha danneggiato principalmente il sistema corporativo e ingessato dell'industria discografica. Ci sono, tuttavia, autorevoli studi che sostengono il contrario.

Il file sharing (scambio e condivisione di file) di materiale protetto dal copyright, si è sviluppato e diffuso con l'imporsi delle tecnologie informatiche e del web, e in particolar modo grazie al sistema del peer-to-peer. La velocità di questa diffusione e sviluppo, ha reso difficile per il diritto industriale internazionale aggiornarsi con la medesima prontezza. Molti analisti internazionali accusano infatti la presenza di vuoti normativi non omogeneamente colmati.

Copyleft

Nel 1984, Richard Stallman e la Free Software Foundation svilupparono un meccanismo originato dal copyright, specifico per la gestione dei diritti sulla proprietà dei software. Utilizzando un doppio senso della lingua inglese (nella quale "right" significa sia "diritto", sia "destra") denominarono questo meccanismo copyleft ("left" significa sia "lasciato", sia "sinistra", a sottolineare una filosofia opposta a quella del copyright); tale principio è stato ampiamente applicato nell'ambito del software libero.
Legislazioni nazionali in materia di copyright

Le legislazioni nazionali tendono al bilanciamento del diritto d'autore con gli altri diritti garantiti dalle Costituzioni:

- libertà economica, che si esplica nel diritto all'iniziativa privata e alla proprietà privata: se la proprietà privata è protetta dal diritto d'autore, l'iniziativa privata è limitata dalla durata del copyright e dalla possibilità del detentore dei diritti di ridurre o annullare, anche dietro equo compenso, l'utilizzo di terzi. Il diritto antitrust trova uno scopo nell'impedire la formazione di monopoli legali non naturali, che ledono la libertà di impresa e sono stati storicamente un pericolo per le democrazie, non dovuti a risorse scarse, quali non sono e non possono essere per loro natura le informazioni, infinitamente replicabili.
- diritti soggettivi indisponibili della persona: libertà di parola di pensiero e dell'arte, diritto alla salute e all'istruzione, e più in generale alla qualità della vita, felicità-realizzazione del sé; privacy intesa come inviolabilità della proprietà privata e del domicilio, e come segretezza delle comunicazioni personali ed elettroniche.

Stati Uniti d'America

Negli Stati Uniti la legislazione in materia di copyright è contenuta nel Titolo 17 dello United States Code. Le violazioni di copyright sono pertanto considerate reato federale e possono comportare, in sede civile, multe fino a 100.000$.

Tuttavia la legge statunitense prevede il concetto di fair use, che lascia ampi spazi per la riproduzione di opere con scopi didattici o scientifici. In Italia la pretesa della Siae di richiedere compensi per diritto d'autore anche per le attività didattiche è stata oggetto di un'interrogazione parlamentare del senatore Mauro Bulgarelli, che ha chiesto di valutare l'opportunità di estendere anche in Italia il fair use.

Nei Paesi del Common Law (Gran Bretagna, Australia, Nuova Zelanda, Singapore) l'attenuazione alla rigidità del copyright è regolata dal fair dealing, che esenta le attività didattiche ed altre ipotesi dall'usuale normativa.


.....segue nel topic successivo.....​
 

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Le direttive europee

Il Parlamento europeo è intervenuto in materia di copyright con la Direttiva enforcement nel 2004, con importanti emendamenti a difesa degli utenti. Ha poi emanato nel 2007 una seconda direttiva, detta IPRED2, a maggiore tutela dei detentori di diritti d'autore.

La direttiva IPRED

Anche l'originaria direttiva conteneva, in fase di presentazione, norme penali, che erano state omesse per riuscire ad ottenere l'approvazione entro il 1º maggio 2004.

Il Parlamento europeo ha votato, in seduta plenaria la relazione che accoglie la proposta della Commissione ma, nello stesso tempo propone una serie di emendamenti. Con uno, in particolare, sulla base del fair use prima esistente solo nel diritto americano, si stabilisce che la riproduzione in copie o su supporto audio o con qualsiasi altro mezzo, a fini di critica, recensione, informazione, insegnamento (compresa la produzione di copie multiple per l'uso in classe), studio o ricerca, «non sia qualificato come reato».

La direttiva IPRED2

Il Parlamento di Strasburgo nell'aprile del 2007 ha approvato il testo di una nuova direttiva, che mira a modificare la direttiva 2004/48/EC sui diritti di proprietà intellettuale. Poiché è la seconda direttiva sull'argomento ha preso il nome di IPRED2.

La Direttiva IPRED2, detta "IP Enforcement" cioè "rafforzamento della proprietà intellettuale", è stata recepita in Italia nel maggio del 2007 e introduce diverse misure a maggiore tutela dei detentori di diritti d'autore. In particolare, obbliga gli Internet Service Provider a fornire i dati personali degli utenti in caso di contestazione da parte dei detentori dei diritti. Si tratta di rivelare i nominativi o i numeri telefonici corrispondenti agli indirizzi IP, rilevati da società specializzate nelle intercettazioni su reti P2P. L'obbligo in precedenza valeva solamente rispetto a interventi delle forze dell'ordine o di pubblica autorità. La Direttiva riconosce implicitamente un valore probatorio alla rilevazione degli indirizzi IP.

La regola della prima scadenza

In base alla Convenzione di Berna è stata introdotta la Regola della prima scadenza.

Considerazioni generali

Deroghe ai diritti per pubblica utilità

La proprietà intellettuale può essere oggetto di "esproprio" per fini di pubblica utilità, che prevalgono sull'interesse del privato. In un caso del genere, rientra la distruzione o lo spostamento ad altro sito di un'opera d'arte anche contemporanea, per realizzare un'autostrada o una ferrovia; oppure la produzione di un farmaco che è troppo costoso acquistare dal legittimo produttore, non riconoscendo validità al brevetto sul territorio nazionale e non pagando il copyright allo scopritore in deroga ad un brevetto internazionale depositato all'estero (si tratta della importazione forzata e registrazione parallela).

La definizione di pubblica utilità, per quanto ampia e discrezionale, solitamente riguarda prodotti tangibili, non la fruizione di servizi, come potrebbe essere un intrattenimento musicale.
Proprietà intellettuale e bene comune

A sostegno di una disciplina giuridica dei brevetti sorgono una serie di considerazioni in particolare nel settore delle arti.

Le arti (scultura, pittura, etc.) sono considerate un fattore di crescita della società e del cittadino, cui tutti hanno diritto di accesso in base ad un diritto all'istruzione e di un diritto, da questo indipendente, alla fruizione della bellezza, quale bisogno dell'uomo, poiché la legge non deve limitarsi a garantire il soddisfacimento delle necessità primarie della persona, ma la possibilità di una sua completa realizzazione.

Altri sostengono che l'arte non è mai il prodotto di un singolo individuo, e che non è quantificabile il contributo e le influenze che qualunque artista ha avuto, anche in modo inconsapevole, da altri artisti e uomini comuni, passati e contemporanei, e il debito dell'autore nei loro confronti. In questo senso, l'opera è prodotto e proprietà di una società e di un'epoca, più che di un individuo e dei suoi eredi.

Il principio di un diritto collettivo alla fruizione della bellezza e all'apprendimento dall'arte, nelle loro opere originali sono state idee che portarono nel '700 alla nascita dei primi Musei che erano concepiti come il luogo in cui l'arte veniva valorizzata e doveva essere conservata, piuttosto che all'interno di collezioni private gelosamente custodite.

Pure per la musica, per quanto sia un'arte non "tangibile", alcune considerazioni spingono per un diritto d'accesso collettivo che può esserci solo a titolo gratuito o comunque a basso costo: il fatto che la musica è cultura e i cittadini hanno diritto d'accesso ai livelli più alti dell'istruzione, il diritto allo studio nei conservatori che richiedono spese notevoli per lo strumento e il materiale didattico musicale, la bellezza come bene comune e valore apartitico.

Durata ed ereditarietà del copyright

La normativa prevede una durata del copyright limitata nel tempo e variabile significativamente a seconda della categoria merceologica tutelata (medicinali, brani musicali, software, ecc.).

Il periodo di copyright dovrebbe consentire di avere un adeguato margine di guadagno e di recuperare i costi che precedono l'entrata in produzione e la distribuzione del prodotto. La durata, in linea di principio, è proporzionale ai costi da remunerare. Tuttavia non sempre la proporzione viene rispettata. Per esempio un brano musicale ha una durata di copyright di 50 anni, mentre per un medicinale, che ha costi di ricerca e sviluppo assai maggiori, il periodo di copertura è di 30 anni.

Storicamente, la morte dell'autore causava l'estinzione del copyright. In seguito, il diritto d'autore è passato agli eredi del soggetto e quindi la durata prevista dalla legge è prescrittiva (30/70 anni in ogni caso). È stata modificata anche la distribuzione dei margini: all'editore tocca talvolta più dell'autore, talora più del 50% (a fronte di un equo margine che per un intermediario è generalmente intorno al 20%).

Dibattito sulle pene per la violazione del copyright

Nelle legislazioni internazionali è frequente una tendenza all'equiparazione fra la violazione del copyright e il reato di furto.

Esiste un dibattito non solo sull'entità delle pene che una simile equiparazione comporta, ma anche sulla reale opportunità di accomunare le due tipologie di reato. L'equiparazione al furto comporta infatti un considerevole inasprimento delle pene.

Analogo dibattito investe il rispetto del proporzionalismo fra le pene rispetto alla gravità del reato. Il plagio, infatti, prevede pene inferiori al furto (sebbene l'utilizzo commerciale sia un'aggravante nella violazione di copyright). In sostanza, chi copia e vende opere in forma identica all'originale commette un reato punito molto più severamente del plagio, ovvero di chi apporta lievi modifiche e si appropria di una qualche paternità sull'opera, traendone profitto.

Caso eclatante di violazione

Nel 2008 gli eredi di Chet Baker hanno fatto causa contro le mayor discografiche (Sony BMG, EMI Music, Universal Music e Warner Music) per violazione del copyright. A loro, dopo poco, si sono aggiunti altri artisti fino ad arrivare ad una class action. Le case discografiche sfruttavano commercialmente i brani senza pagare i diritti agli autori dichiarando semplicemente che non era possibile rintracciarli (anche artisti del calibro di Bruce Springsteen).





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